Saturday, August 18, 2012

EXCERPT: Nothing of a Son

Title: Nothing of a Son
Author: L. A. Witt
Publisher: Amber Allure
Format(s): eBook


...“You are welcome in my home and at my table, as is any man in the king’s army. But some of the men who have passed through here have been…troublesome.”

“Troublesome?” I asked.

“Yes.” He faced me fully now, pushing his shoulders back. “Which is why, as with every man who comes to my door, there is one condition to your stay.”

I raised my eyebrows. “Yes?”

“My daughters, Arana and Liela.” He stepped closer, expression darkening. “Lay a hand on either of them, Commander, and your skull will decorate my vineyard’s gates. Am I clear?”

“You have my word,” I said without hesitation. “On my honor as a soldier of the king, your daughters are safe from me.”

He eyed me, probably searching my expression for signs of dishonesty. Then, with a subtle, curt nod, he left.

As soon as he was gone, the maid took me upstairs to the guest chambers.

My accommodations were as large and twice as luxurious as the largest room of the home I’d left behind before the war. It was finely appointed, from the polished furniture to the exquisite pottery that must have come from the west. The duke must have been either tremendously trusting of his guests—or their fear of punishment—or so wealthy he could afford to risk such expensive finery being damaged or stolen.

As I took in my surroundings, my gaze stopped at the immense bed. I hadn’t seen a bed so inviting in years—smooth, even, wrapped in fresh linens—and had I not been invited to dine with the duke and his family this evening, I’d have gone to sleep in it immediately. Just a few hours. I could wait.

The servant filled the wash basin and tub with fresh, clean water, and after she’d gone, I dug a blade from my saddle bag so I could at last shave two weeks’ worth of traveling from my jaw. Once all of that was gone, I splashed some more of the cool water on my face before stripping off my uniform to bathe.

Clean, shaven, and dressed in a more appropriate—though stiffer and not as comfortable—uniform, I felt human for the first time in weeks. Cleanliness was something every soldier took for granted until he went to battle. The first time he experienced the sensation of being free of blood, sweat, mud, and gods knew what else the battlefield layered on our flesh and clothes, he appreciated what it meant to be clean.

As I buttoned my collar, I went to the window and looked out at the vineyards below. The trees whipped and bowed in the strengthening wind, and below them, servants scurried from building to building, securing doors, windows, and gates. A couple of boys in threadbare pants herded chickens into a shed beside the barn. Women carried pails and buckets, men led horses and cattle, and—

What is this?

I leaned closer to the window, nearly touching my nose to the glass.

One man worked alongside the others, giving directions and orders while leading an antsy gray stallion. Even in dusty work clothes, he was too well dressed to be a servant. Too young to be Maht himself, though the duke’s blood clearly ran through his veins. His hair was almost as black as the duke’s, his stubble-dusted jaw and smooth cheekbones carved from the same marble.

There was no mistaking this was Duke Maht’s son. Able-bodied and strong, without the hardness of a soldier who’d been to war, so he was likely the youngest son. Youngest, but most certainly a man. A head taller than his father, slightly narrower in the shoulders, this was no child. Twenty, I supposed. Certainly not much older.

And stunning. Perhaps it had been too long since I’d seen a young man who wasn’t covered in dirt and blood, but I was sure it was more than that. Something told me the duke’s son would have stood out even if he were muddy and bloody, just like he did now in spite of sweat and dust.

He disappeared into the barn with the stallion, and I exhaled, wondering how long I’d been holding my breath.

“My daughters, Arana and Liela,” Duke Maht had said. “Lay a hand on either of them, Commander, and your skull will decorate my vineyard’s gates.”

He'd said nothing of a son...

Tuesday, August 14, 2012

EXCERPT: Le Regole de Gioco (Rules of Engagement, Italian translation)

Title: Le Regole de Gioco
Author: L. A. Witt
Publisher: Dreamspinner Press
Formats: ebook



Quando la barista si chinò a prendermi la Bud Light dal frigo sotto al bancone, la camicia le si aprì rivelando l’ampia scollatura. La donna alzò lo sguardo e mi lanciò un sorriso a trentadue denti.

“Ecco la birra,” fece. Nel prenderla, le sfiorai apposta il dorso della mano. La donna guardò le nostre mani, poi me; ammiccai e lei ricambiò.

Un attimo dopo era sparita a servire altri clienti e io mi appoggiai al bancone con un sorriso compiaciuto. Mi guardai intorno: tutte le bariste del locale flirtavano con i clienti. Era un gioco innocente e, di solito, bastava e avanzava a farmi eccitare. Non che ci volesse molto, in effetti.

D’istinto mi portai la mano sull’anulare sinistro: subito il mio buonumore si dissolse come nebbia al sole, rimpiazzato dalla solita morsa alle budella. Non avevo nessun motivo per sentirmi in colpa; il divorzio non era stato ancora ufficializzato, ma il mio matrimonio era finito da un pezzo – anche se per ora non riuscivo a superarlo.

Sospirai e bevetti un lungo sorso. Forse non era la serata giusta per cercare di rimorchiare qualcuno. Mi era già successo altre volte e non c’era niente da fare.

Oh, beh. Ormai ero uscito, tanto valeva che mi divertissi un po’, invece di andare a casa a ubriacarmi.

Grida e fischi al biliardo in fondo alla sala attirarono la mia attenzione, e mi voltai per vedere cosa stesse capitando. Un tipo col cappello da cowboy fissava inebetito il tavolo – la bocca spalancata e le spalle curve – e scuoteva la testa incredulo. Il suo avversario – un bastardo arrogante, con la camicia mezza aperta su una t-shirt bianca – aveva una mano stretta intorno alla stecca e l’altra tesa verso il cowboy. Stava dicendo qualcosa e aveva un ghigno dipinto sul volto. Il cowboy alzò gli occhi al cielo e se ne andò, sbattendo forte la sua stecca sul tavolo.

Il vincitore prese i soldi in palio e se li infilò in tasca. Si guardò intorno, con un sopracciglio inarcato, e si rivolse agli altri spettatori. A giudicare dal modo in cui questi distoglievano lo sguardo, o addirittura si allontanavano, l’uomo stava cercando un’altra vittima. Lo vidi sorridere e passarsi una mano fra i capelli scuri, che gli sfioravano appena il colletto. Persino il taglio era presuntuoso: curato, in ordine, ma lungo quel tanto che bastava a dichiarare “Non me ne frega un cazzo della tua opinione”.

Una ragazza in canottiera blu emerse dalla folla e prese una stecca dal muro. Sorrise allo squalo e fece ondeggiare il seno. Dovetti bere un sorso di birra – come qualsiasi altro uomo nella stanza che la stesse guardando. Qualsiasi a parte lo squalo, che non si scompose minimamente. Lo vidi passare il gesso sulla punta della stecca, sorridere alla donna e dirle qualcosa che la fece arrossire.

Scosse la testa per spostarsi una ciocca di capelli dal volto e la fissò mentre eseguiva il primo tiro. Quando sorrise, negli occhi azzurri comparve una scintilla diabolica.

Dalla mia posizione non potevo sentirli, ma a giudicare dalle espressioni la discussione si stava facendo animata. Mi avvicinai per guardare la partita, lieto della distrazione.

“Vacci piano con lui, Josie,” fece uno spettatore alla ragazza.

“Nah,” rispose lo squalo, chinandosi per colpire la bilia. “Metticela tutta.” La luce sul tavolo gli proiettava un’ombra sotto gli zigomi alti e gli illuminava i capelli, sottolineando riflessi ramati che mi fecero pensare a colpi di sole. Da quando noto certe cose? Cercai di concentrarmi sulla partita.

“Forse è lui che dovrebbe andarci piano,” fece qualcun altro. “Stasera hai perso almeno una partita?”

Lo squalo ridacchiò e mandò in buca la bilia sei. “È una settimana che non perdo.”

“Goditela finché dura,” rispose Josie. La ragazza ostentava sicurezza, ma quando lo squalo buttò in buca la bilia tre, la vidi vacillare impercettibilmente.

“Forse hai ragione. Forse fra poco perderò…” L\'uomo posizionò la stecca. “Ma non questa partita.” Come a sottolineare la frase, colpì la palla bianca e mandò in buca la uno e la quattro con un’unica, splendida mossa.

“Distrailo,” suggerì a Josie uno spettatore. “Fagli vedere le tette.”

“Non funzionerebbe.” Lo squalo diede un’occhiata al tipo che aveva parlato. “Ma potresti ottenere qualche effetto se mi mostrassi le tue.” Rise e, mentre tornava a guardare il tavolo, incrociò il mio sguardo.

“Magari ti batterebbe, se la lasciassi giocare,” osservò qualcuno.

“La lascerò giocare,” rispose lo squalo. “Appena sbaglio un colpo, sarà il suo turno.” Si sporse sul tavolo.

Risi. “Sembri molto sicuro di te.”

Inarcò un sopracciglio e sorrise, sardonico. “Piuttosto che farmi sconfiggere da una donna, stai sicuro che ce la metto tutta.” Si concentrò sulla palla bianca.

“Ci sono cose peggiori.”

Mi guardò. “Ah, sì?”

Feci spallucce e bevetti un sorso di birra. “Tipo farsi sconfiggere da qualcuno che sa giocare.” Josie mi fulminò con lo sguardo, ma non la degnai di un’occhiata.

Stavolta, quando lo squalo mi guardò, colsi qualcosa nella sua espressione che mi fece trattenere il respiro. Durò appena un istante: un secondo dopo, l’uomo era già tornato a concentrarsi sul gioco. Tirò e la bilia due mancò la buca di un soffio. L’uomo imprecò e cedette il posto a Josie.

“Era ora,” commentò questa. “Adesso ti insegno io come ci si sente a essere sconfitti da una donna.” Si sporse sul tavolo, i jeans tesi sopra le sue gambe. Tutti gli uomini del locale la fissavano ipnotizzati – me incluso. Quando si mise in posizione e si fermò per prendere meglio la mira, bevetti un sorso di birra.

Nello staccarmi dalla bottiglia, gettai un’occhiata allo squalo.

Mi stava guardando.

Aveva un’espressione curiosa in volto, una combinazione di stupore e presunzione. Mi stava squadrando, valutando, soppesando mentalmente, come per decidere se sfidarmi o meno.

Trattenni la birra in bocca per un istante e, quando deglutii, fui certo che mi stesse fissando la gola. Poi tornò a guardarmi negli occhi, stavolta con risoluzione.

In quell’istante seppi con certezza assoluta che, appena finito con Josie, sarebbe stato il mio turno.

La ragazza riuscì a mandare in buca quattro bilie prima di sbagliare. Il suo – e presto mio – avversario la sconfisse con facilità, imbucando tutte le palle che restavano prima di dedicarsi alla otto.

“Bella partita,” disse, porgendole la mano oltre al tavolo.

Josie la strinse e sorrise, ma con un che di rigido e irritato nei gesti. Si accomiatarono e la donna se ne andò.

Lo squalo guardò me e indicò il tavolo. “È ancora presto. Ci stai?”

Sorrisi e presi una stecca dal muro. “Quanto scommettiamo?”

Sollevò la birra e rispose “Cinquanta.”

Tirai fuori i soldi dal portafoglio. “Da quant’è che non perdi una partita?”

Lo squalo rise e sistemò le palle nel triangolo. “Qualche giorno. Ma succede anche a me, di tanto in tanto.”

“Bene,” risposi. “Almeno ci sei abituato.”

Fece un sorriso ampio e mi guardò fra gli occhi a fessura. “Mi piace la sicurezza.”

Posai la birra e passai il gesso sulla stecca. “Spero che ti piaccia anche perdere.”

“Non saprei, cosa si prova?”

Feci per replicare con qualche battuta, ma mi accorsi che non mi stava guardando. Teneva gli occhi fissi sul gesso stretto fra le mie dita. Lo strofinai lentamente sulla punta e guardai i suoi occhi seguirne il movimento, finché non lo staccai.

Si schiarì la voce e prese a sua volta il gesso. “Spacca tu.”

Annuii. Una tensione anomala mi attanagliò le budella mentre appoggiavo la palla bianca sul tavolo. Presi la mira e mi sforzai di rimanere concentrato, di ignorare il suono ruvido del gesso contro la punta della sua stecca. Deglutii, aggrottai la fronte e mi preparai a colpire.

La bilia dodici andò in buca. Al colpo successivo, la dieci.

“Rigate, eh?” Non sembrava affatto nervoso. Era convinto di avere la vittoria in tasca. Vedremo.

“Già,” risposi, valutando i tiri possibili. Poi lo guardai. “Non preoccuparti, le faccio sparire subito.”

Ridacchiò e si portò la bottiglia alle labbra. “Che gentile.”

Il mio lato esibizionista voleva compiere un qualche tiro spettacolare per conquistare la folla, ma quello competitivo sapeva che non era il caso di rischiare. Contro un avversario del genere, la cosa migliore era attenersi a tiri semplici e sicuri; il punteggio finale era l’unica cosa importante, e ai due bigliettoni da cinquanta non importava in che modo avessi vinto.

Evitai il suo sguardo e mi preparai al tiro successivo. Ostentavo sicurezza, ma mi sentivo nervoso. Non solo perché lo squalo era un giocatore eccezionale; c’era qualcosa, nel suo sguardo, che mi disturbava. Come se non mi stesse valutando solo come avversario.

Concentrati. Sta cercando di spaventarti. Inspirai a fondo e tirai, mandando in buca la bilia quattordici. Mi spostai intorno al tavolo per seguire la palla bianca e mi arrischiai a guardarlo. Incrociai appena il suo sguardo, ma bastò a levarmi il fiato.

Forse era solo una strategia per mandare in crisi gli avversari, ma non avevo mai visto niente del genere. Quando i nostri occhi si incrociarono, per una frazione di secondo, lo vidi sconvolto quanto lo ero io. Mi domandai se anche a lui il cuore era schizzato nel petto.

Se era una tattica per innervosirmi, stava funzionando alla grande.

Mi sporsi sul tavolo, col cuore che mi pulsava nelle tempie. Proprio mentre tiravo, qualcuno mi colpì da dietro e la palla bianca superò la nove senza neanche andarci vicino. Imprecai sottovoce.

Lo squalo mi porse la battente. “Rifallo.”

“Grazie,” brontolai. Mi voltai a vedere chi mi aveva colpito e intanto allungai la mano verso la palla.

La sentii cadermi nel palmo e, allo stesso tempo, lo squalo mi sfiorò il polso col pollice. Guardai le mani, poi lui, e capii subito che l’aveva fatto apposta. Rabbrividii e chiusi le dita intorno alla palla, con un sospiro.

Lo squalo deglutì ma non distolse lo sguardo, come se mi sfidasse a farlo per primo. “A te.”

“Grazie.” Quasi mi strozzai. Mi schiarii la voce e rimisi la palla al suo posto. Controllai di non avere nessuno alle spalle, dopodiché ritirai.

Stavolta nessuno mi toccò, ma mi tramavano le mani: la bilia nove colpì in pieno il bordo e rimbalzò in mezzo al tavolo. Mi tirai su con un sospiro e guardai il mio avversario.

“Tocca a te,” dissi sconsolato.

Lui annuì con un ghigno. Bastardo arrogante. Non potevo credere che fosse riuscito a mandarmi in tilt. C’ero cascato in pieno e avevo sbagliato un tiro davvero facile.

Analizzò il tavolo in cerca del tiro perfetto, probabilmente calcolando ogni possibile colpo da ogni possibile angolatura, studiando la situazione come fa un giocatore di scacchi. Nel frattempo tamburellava con le dita sul bordo ed ebbi l’impressione di scorgervi un lieve tremito. Aggrottai le sopracciglia e mi concentrai su quella mano, cercando di capire se me lo fossi immaginato.

Smise di tamburellare, ma continuò a tremare.

Quando alzai lo sguardo, vidi che anche lui mi stava fissando.

Deglutii e stavolta fui certo che il suo sguardo seguisse il movimento della mia gola. Si passò appena la lingua sulle labbra, ma subito tornò a concentrarsi sul gioco. Feci un passo indietro, fissando le bilie senza vederle.

Di qualunque cosa si trattasse, non era un gioco. Altro che tentativo di mettermi fuori uso: lo squalo faticava quanto me a rimanere concentrato.

“Tocca a te.” La sua voce mi fece trasalire.

Guardai il tavolo e ricalcolai il punteggio. C’erano ancora quattro palle rigate, tre piene, e la otto. Cristo, era riuscito a mandarne in buca quattro senza che neanche me ne accorgessi. Forse non era poi così nervoso.

Ne imbucai due, poi sbagliai. Lo squalo ne mandò in buca una delle sue. Poi un’altra io. Il tutto mentre cercavamo di non guardarci e di restare concentrati sul gioco.

La folla di spettatori si fece più numerosa. Alcuni erano impressionati dal fatto che stessi dando del filo da torcere allo squalo, ma altri si accorsero – come me n’ero accorto io – che l’uomo non era al massimo della forma. Non stava giocando come al solito, come aveva fatto con Josie e con il tizio vestito da cowboy.

Mi domandai se qualcuno potesse percepire la strana tensione nell’aria, che sembrava non avere niente a che fare con la partita.

“Cazzo,” mormorò lo squalo quando la bilia bianca finì in buca insieme alla due. La pescò e me la porse.

Stavolta gli sfiorai il palmo con le dita e lo vidi trattenere il fiato. Faceva un caldo boia nel locale, ma ero felice di aver scelto una camicia a maniche lunghe. Chiunque, altrimenti, avrebbe visto che avevo la pelle d’oca.

Mandai in buca la bilia undici, portandoci in parità: ci restavano una palla a testa e poi la otto.

Sbagliai il tiro.

Subito dopo, sbagliò anche lui.

Imprecai sottovoce e mi preparai a colpire di nuovo. Stavamo entrambi giocando da schifo, ma perché? Cosa diavolo stava succedendo?

Mentre mi concentravo sulla palla, vidi qualcosa con la coda nell’occhio. Alzai lo sguardo giusto in tempo per osservare lo squalo che passava il gesso sulla stecca, prima di soffiarne via la polvere in eccesso. Mi si mozzò il fiato in gola.

Cristo santo, che cazzo mi succede?

Mi sforzai di concentrarmi e riuscii a mandare in buca la tredici. Lo squalo strinse le labbra e alzò un sopracciglio. La palla otto era vicinissima al buco. Era un tiro facile; avevo vinto e lo sapevamo entrambi.

Sempre che riuscissi a far funzionare le mani. Avrei voluto prenderlo in giro, fare qualche battuta sagace, ma di colpo lo vidi passarsi la lingua sui denti e istintivamente lo imitai. Rimanemmo a fissarci. Un brivido mi percorse dalla testa ai piedi, rendendomi le gambe di burro, e un’improvviso calore fra le gambe mi rivelò il senso esatto di tutto quel nervosismo.

Cercai di respirare, di concentrarmi sul tiro – di capire come fosse possibile che un uomo mi facesse quell’effetto.

“Palla otto.” Avevo la bocca asciutta. Mi concentrai sulla bilia bianca: solo la bilia bianca, niente squalo, niente erezione, niente assurdi effetti collaterali. Grazie a Dio non solo avevo indosso una camicia a maniche lunghe, ma l’avevo anche lasciata fuori dai pantaloni; sperai che fosse abbastanza lunga da evitarmi una figuraccia.

Tirai e la palla cadde nel buco.

La folla che osservava la partita eruppe in grida fragorose, applaudì la mia vittoria e lanciò frecciatine allo squalo, che aveva appena perso dopo chissà quanto. Lo vidi scuotere la testa incredulo e prendere i soldi dal tavolo.

“Bella partita,” disse. “Davvero bella.” Me li passò e mi porse l’altra mano. “Brandon Stewart.”

“Dustin Walker.” Gliela strinsi. Gli strofinai il dorso col pollice e lui fece lo stesso. Entrambi ci irrigidimmo, prima di sciogliere la stretta e schiarirci la voce.

“Quando ti va di darmi la rivincita,” disse, reggendo il mio sguardo a fatica – curioso, considerato che di solito era così arrogante. “Sai dove trovarmi.”

Deglutii. “Ti prendo in parola.”

Indicò il tavolo. “Quando vuoi.”

“In realtà, adesso devo andare,” risposi. “Ma vengo qui spesso. Appena ti ritrovo, stai sicuro che non mi lascerò sfuggire l’occasione di umiliarti.”

Sorrise e mi fece l’occhiolino. “Quando e dove vuoi.”

Ci scambiammo un’altra stretta di mano. Poi finii la birra e mi diressi all’uscita, cercando di capire che diavolo fosse appena successo.